Sorgerebbe quasi spontanea la tentazione di far precedere alla narrazione della nuova collezione Wales Bonner una presentazione dove sciorinare la lunga lista di premi importanti, titoli mirabili e collaborazioni prolifiche, raccolti da una manciata d’anni a questa parte all’interno del grande mondo del fashion dalla sua fondatrice così giovane, eppur già così – meritevolmente, evviva! – applaudita, accolta e acclamata: Grace Wales Bonner.
Lei che al suo che non è solo un brand, ma un vero avamposto di ricerca intellettuale, anzi multidisciplinare, profonda, potente e delicata, costruttiva e sincera, ha dato il suo nome: perché c’è dentro il suo bagaglio d’anima e vita, insieme al suo desiderio urgente di conoscenza che si esprime soprattutto attraverso lil linguaggio della moda, e si espande collezione dopo collezione.
Ebbene, assecondare questa tentazione vorrebbe dire quasi sabotare le sue intenzioni, rovesciare con malagrazia superficiale il lavoro certosino, discreto eppur felicemente pervasivo, che dalla graduation collection alla Central Saint Martin’s avvenuta nel 2014, Grace Wales Bonner porta avanti con ingegno e impegno, vocazione e passione, la forza del coraggio e il valore della collaborazione.
Ovvero: esplorare la black culture e la sua estetica, ricomporre il mosaico scomposto, assai frammentato, persino distorto e sfruttato, della storia post-coloniale, delle storie delle comunità di sconfitti che risalgono alla diaspora di schiavi raccolti in Africa e riversati nei Caraibi, ripercorrere le origine lontane per riallacciare i filamenti di culture intessuti negli stili indossati e negli stili espressivi odierni delle comunità di colore, ripulire dagli stereotipi occidentali e dare loro la stessa rilevanza e dignità che finora è stata riservata a tutto ciò che ha natura eurocentrica.
Quindi no, niente introduzione opulenta: tanto più che la collezione 2021 di Wales Bonner s’intitola Essence. E come indica il nome, è un nuovo capitolo di questa lunga e pregevole narrazione.

In gergo si chiamerebbe storytelling, ma il bello di questa narrazione è che si tratta di un autentico percorso di ricerca, un itinerario il cui primo seme ha iniziato a germogliare dentro la biografia stessa di Grace Wales Bonner, nata a Londra da madre inglese e padre giamaicano, con la buone sorte di un’educazione incoraggiante alla scoperta aperta del proprio valore, della conoscenza e della propria espressione, allenata anche grazie ai libri di scrittori delle Indie occidentali ereditati dal grande interesse del padre, insieme alla frequentazione della sua famiglia, quindi alla sperimentazione sulla propria pelle del concetto vivo di integrazione. La formazione alla Central Saint Martins è stata l’occasione in cui la sua fascinazione per la black culture ha preso la forma della dedizione accademica e si è fusa nella rivelazione dell’abbigliamento come mezzo d’espressione.
Et voilà l’alchimia: Grace è innanzitutto una fashion designer, ma non c’è casella abbastanza capiente o etichetta abbastanza esaustiva per contenere i numerosi talenti che partecipano al suo approccio, e per fortuna! Perché il cuore dell’intento sta proprio nell’abbattere le barriere artefatte tra discipline di conoscenza e retaggi sociali, scavare in ciò che della storia post-coloniale, e delle culture africane forzate a contaminarsi con culture europee e americane, viene tenuto nascosto per portarlo in superficie e restituirgli valore, anche grazie alle sinergie artistiche e alle fonti di inspirazione e formazione che per Grace sono una preziosa moltiplicazione di punti di vista e narrazione: le si potrebbe affiancare la figura dell’umanista rinascimentale, che insieme a maneggiare gli strumenti della progettazione di moda mette lo studio approfondito della letteratura black, di pensatori e politici, storici e creativi di colore. Attraverso l’abbigliamento e la sinergia con le arti, da quelle figurative a quelle letterarie e musicali, infatti, Grace Wales Bonner occupa con la sua ricerca le fessure poetiche da cui osservare la multiculturalità per raccogliere i temi che sono alla base della sua creatività sartoriale.
Ovvero il menswear, che si è ampliato nel womenswear, dove la figura maschile non ha nulla del machismo stereotipato dell’uomo di colore, ma ha la fluidità adatta ad indossare il frutto delle ricerche affrontate fin qui tramite le collezioni: come la dialettica tra la formalità di stile inglese ed elementi della tradizione decorativa africana (L’Afrique, p/e 15), la mascolinità accessoriata con la femminilità (Ebonics (a/i 2015-16), la rievocazione di un eroe storico nato schiavo e divenuto primo ministro del sultano (Malik p/e 2016) per riflettere sullo status d’origine e il potere di ribaltarlo, l’esplorazione sottile eppur determinata dell’omosessualità maschile nera (Blue Duets p/e 2018).
C’è anche l’esplorazione della spiritualità nera, le sue commistioni, i suoi simbolismi, le sue vie d’espressione e trasmissione dove la musica e la danza con i loro ritmi divengono veicoli di estasi e connessioni (Spirituals a/i16-17; Ezekiel p/e 17; Spirituals II a/i 17-18; Ecstatic recital p/e 2019; Mumbo Jumbo, a/i 19-20; Mambo, p/e 20), e l’avvio dell’indagine sulle connessioni tra i Caraibi e la Gran Bretagna dovute alla diaspora delle popolazione africana, che con l’a/i 20-21 “Lovers Rock” inizia la riflessione immergendosi nell’analisi della comunità giamaicana britannica nella Londra degli anni Settanta.

Wales Bonner p/e 21, “Essence”: la moda è l’indagine sulla sostanza della black culture, la storia ricca e intricata della diaspora africana

Da qui l’indagine prosegue con la p/e 2021 “Essence”: nello spazio e nel tempo, spostandosi nella Giamaica degli anni Ottanta, in particolare nelle strade dei ghetti che diventano i palcoscenici della comparsa della dancehall. La musica, e la danza of course: un crogiolo di contaminazioni che incorpora rievocazioni di balli rituali africani con quel loro ritmo ineguagliabile che è pura liberazione del corpo e dello spirito, li assembla al patois, la lingua frutto di varie lingue parlate e ereditate sull’isola, stratifica tutto sui primi dischi che portavano la musica americana e oltreoceanica in quelle comunità di downtown, prive di tanto tranne che dell’orgoglio di conservare e far prosperare la loro identità, frutto della convergenza di popoli diversi e della multiculturalità.
E naturalmente lo stile, quello della dancehall, che raccoglie l’intricata sostanza e l’energia esplosiva del genere e diventa la fonte d’ispirazione per lo stile in collezione: o meglio, un codice stilistico, il linguaggio tramite il quale Wales Bonner racconta la sua interpretazione, il suo scandagliare ogni sfumature della black culture e black style giamaicano messo a dialogare con gli influssi della Gran Bretagna e filtrato con i capisaldi del suo design. Per questo c’è innanzitutto l’uomo: con un guardaroba che racconta la compostezza elegante della tradizionale sartorialità inglese, tramite il completo spezzato da giorno e la camicia, capo che è emblema della storica eccellenza dei mastri camicia di Jermyn Street, ma è anche l’indumento iconico dell’altrettanto iconico Augustus Pablo, celebre musicista e produttore discografico giamaicano di musica reggae e dub; e che man mano prende il ritmo vibrante e fa posto all’ibridazione con l’abbigliamento sportivo, esito del rinnovamento della collaborazione con Adidas, e che mantenendo la silhouette smilza e asciutta presenta tute che si manifestano in pienezza di forma e colore vivace, e altri elementi che si fondono e confondono con l’aplomb composto fatto dai gilet, i pantaloni asciutti, i completi con dettagli che provengono dalle divise militari, il bomber che richiama la varsity jacket, il velluto a coste, la lana per i capi con le ampie righe. La palette dei colori si fa più sobria, ma non dimentica i toni vivaci tipici giamaicani: qui entra a far la sua parte anche la donna, che condivide con l’uomo la compostezza morbida, indossa il completo d’origine formale, ma anche l’agio libero della gonna crochet con il fondo che danza sfrangiato.
La collezione è stata presentata alla Paris Fashion Week in via digitale: raccontata attraverso l’anteprima del film Thinkin Home opera dell’artista giamaicano Jeano Edwards, e ampliata con la rivista digitale “Reflections on Essence” che ricompone e approfondisce il percorso di ricerca e ispirazione di Grace Wales Bonner per la creazione della collezione.
Resta comunque doveroso rendere il giusto omaggio ali riconoscimenti ufficiali che stanno componendo il successo del percorso e della bravura di Grace Wales Bonner: la più giovane designer a portare in scena la sua collezione al Victoria & Albert Museum partecipando al’Fashion in Motion Series’, Emerging Designer of the Year ai British Fashion Awards, vari Breakthrough Designer e il 2016 LVMH Prize, British Land London Emerging Medal, BFC/Vogue Designer Fashion Fund; e ancora la mostra A Time for New Dreams alla Serpentine Gallery; e la carriera accademica come tutor alla Central Saint Martins e Direttrice Artistica all’Università delle Arti Applicate di Vienna Una sintesi sfavillante, in cui s’incastona anche, tra le varie collaborazioni di valore, la sinergia con Maria Grazia Chiuri che ha affidato a Grace la reinterpretazione dell’iconica silhouette New Look di Christian Dior in occasione della cruise 2020. Ah, dimenticavo: è opera di Grace Wales Bonner l’abito trench bianco indossato da Meghan Markle quando, a fianco del consorte, si è presentata dopo il parto davanti al mondo curioso d’incontrare per la prima volta il neonato Archie: anche questo, a suo modo, è un tassello di significato dentro il grande mosaico prezioso che Wales Bonner sta allestendo per tutti.