A giocare con l’approccio magrittiano di scombinare la ragione infilando le verità dentro rebus surreali a foggia di semplici opere d’arte, si potrebbe introdurre il nostro percorso nel mondo de La Marchigiana con un monito che suonerebbe così: “queste non sono (solo) scarpe e borse, né sono moda”. Sono lo strumento con cui Daniela Diletti dimostra e costruisce la sua rivoluzione artigiana.
Daniela è una miscela di tenacia generosa e lucidità tignosa: sa essere profondamente brillante e dannatamente dissacrante, fino al punto esatto per scardinare le illusioni scintillanti di alcuni meandri del fashion, e costruire sulle macerie le sue creazioni con agganciate nuove visioni in grado di riconnetterci alla consapevolezza dei nostri desideri. E alla coscienza del nostro patrimonio artigiano da adattare alla contemporaneità già intrecciata al futuro. La Marchigiana è riflesso e frutto della natura della fondatrice: elegante di una ricercatezza tutta sua diversa dalla massa artefatta, rurale abbastanza per essere così ribelle da rompere le regole dei vecchi regimi, dopo averne vissuto sulla pelle l’inutilità.
Le origini della storia d’imprenditrice artigiana di Daniela, e della strada creativa che conducono al brand, sono condensate nella schiettezza della vita di provincia dove risiede la tradizione manifatturiera, e nell’oscillazione brutale che questa ha attraversato. Originaria di Force, piccolo borgo incantevole dell’interno ascolano, Daniela cresce, fino alla fine del Liceo Artistico, nella fabbrica dei genitori dove ha sempre avuto a che fare con pellami, forme, scarpe, grandi case di moda come clienti, riviste fashion da cui prendere gli editoriali per ricavare ispirazione, e la Gazzetta dello Sport perché il calcio è uno dei rari diversivi concessi dalla filosofia lavorativa: “il mio approccio alla moda vero e proprio, creativo, è avvenuto tra 14 e i 17 anni chiusa in fabbrica di mia spontanea volontà a creare oggetti. Il sabato, mentre le mie amichette andavano a ballare, io andavo a sfogare la mia creatività e in autonomia prendevo i pellami, li tagliavo, e inventavo borse e giacche”. Le estati si trascorrevano in fabbrica a lavorare, in viaggio per fornitori e fiere: Daniela lascia le Marche e va all’università a Viterbo, col sogno della docenza accademica. Ma il sospetto che sia troppo effimero le fa scegliere di proseguire al Politecnico, per formarsi nell’efficienza: la parte creativa scompare nei tempi universitari, e si riaffaccia come risposta all’emergenza di aiutare la famiglia, quando nel 2007 l’azienda chiude sotto i colpi della crisi.

L’enciclopedia motivazionale afferma che se la vita ti dà limoni, tu facci la limonata: quelli di Daniela sono aspri assai, ma è accettando di fare la limonata che trova la chiave del successo, quello faticoso, per niente sfavillante, ma autentico e lungimirante. Questo è il periodo in cui al fallimento si fa fronte con i mercatini: il padre s’inventa venditore ambulante, lei gli trova i posti, insieme girano le piazze del centro Italia, lui parte dalle Marche, lei lo raggiunge in treno, insieme dormono nel furgone perché l’albergo è caro, ma la ristrettezza aguzza l’intuizione. Arriva il consiglio giusto di andare al nord che è più ricettivo alle loro scarpe artigianali, e lo spostamento di Daniela a Torino lo conferma. Per due anni si fa il mercatino nella seconda piazza più importante della città: l’incasso è buono e “le persone venivano apposta ogni prima domenica del mese perché sapevano che c’erano quelli delle scarpe” fino a che insistono per sapere dove fosse il negozio, così Daniela decide di aprirlo. Uno spazio di 20 mq con incastrata una routine simile ala disciplina militare “la mattina dalle 9 alle 13 ero in un’azienda che faceva outbound, dalle 15 fino alle 17 andavo al call center dove facevo inbound, poi venivo in negozio fino alle 22, infine a casa a scrivere la tesi di specializzazione; e la domenica i mercatini. Mi sono fatta un gran pelo allo stomaco in quegli anni”. La strada è maestra di vita se vuoi imparare e Daniela apprende benissimo: “la vendita diretta e il contatto con il cliente, quella era la formula del successo, con prodotti e prezzi buoni, ma soprattutto avevamo la risposta immediata del cliente e capivamo subito cosa voleva, così dopo due mesi glielo portavamo. C’era l’assoluto abbattimento degli ostacoli, la filiera iper-corta e l’incasso immediato.”
C’era anche che per disperazione Daniela ha scoperto le falle del sistema ed ha agguantato la lucidità della questione: “la cosa bella è che noi lo capivamo mercatino dopo mercatino, vivevamo per primi la crisi che avrebbero vissuto tutti gli altri, ma avevamo già la soluzione.” Il primo negozio apre nel 2012 e si sposta di un numero civico nel 2015: perché nel frattempo si ingrandisce la consapevolezza di Daniela di non essere una mancata storica dell’arte riciclata in artigiana, ma un’imprenditrice che si sporca le mani, incontra i clienti, si scontra con i conti da far quadrare, si fa portare la macchinetta da cucire per riprendere la creatività e produrre borse da aggiungere allei scarpe. Il nome La Marchigiana nasce col primo negozio e resta saldo: perché suona bene, fa subito territorio, eccellenza e “preso-benismo”.
Daniela è una designer tout court, ragiona in purezza come un architetto nordico: per lei tutto è funzione, utilizzo e materiali, in questo rigoroso ordine. Non c’è arte, anche se ama i fiamminghi del ‘400 e il design automobilistico, e non c’è moda perché non è una fashion victim: dalle riviste ha sempre avuto il gusto d’imparare a riconoscere i codici estetici degli stilisti, che assieme a quelli artistici nel tempo sono diventati la sua personale biblioteca mentale a cui attinge per plasmare le soluzioni creative da applicare a borse e scarpe, che devono essere indossabili, multitasking, non estrose. Non pratica il processo suggestivo dell’ispirazione che diventa una storia da moodboard instagrammabile: “io non mi ispiro con le immagini, io mi ispiro con il problema.”. È una scelta coerente a indole e percorso di vita, generosa nel risvoltare il sistema collettivo: “io visualizzo il prodotto in base al problema che devo risolvere, a me non interessa che gli altri condividano i miei sogni estetici, né il concetto di bellezza, perché per me il made in Italy, il lavoro artigianale e l’impresa hanno una bellezza economica”, che è l’invito a investire, imprenditori artigiani e cliente insieme, nella bellezza del territorio in cui il prodotto nasce, e nella sua comunicazione per incentivare il turismo attraverso l’esperienza artigiana.

Daniela Diletti è La Marchigiana: “non m’ispiro con le immagini, ma con il problema”, che risolve con scarpe, borse e la rivoluzione artigiana

Forse questa narrazione priva di fronzoli e romanticismi farebbe dubitare della presenza di emozione, e invece vi stupirò. Perché Daniela sa essere empatica con il suo mestiere: per creare scarpe e borse, in ogni passaggio ascolta e dialoga con i clienti e coloro che vogliono diventarlo, del pubblico individua le necessità e si prende cura dei desideri, così crea attraverso la mente, le mani, e il cuore. Per questo non fa collezioni, ma solo mono-prodotto fondati sui tre pilastri de La Marchigiana, che hanno a che fare molto con la sostenibilità. Le scarpe, per donna e uomo, nascono dallo studio di forme con lo spessore per il plantare in lattice, anatomico ed estraibile, che garantisce il confort da sneakers anche al modello apparentemente più elegante; inoltre hanno la suola cucita, che consente di risuolare la scarpa fino all’eternità, se indossata con cura ogni due giorni per far asciugare l’umidità; ed infine l’uso di materiali di fine serie, dai pellami agli accessori, filati e suole, tutti eccellenti e reperiti da fornitori storici nell’economia circolare della cortissima filiera locale, etica che si amplifica con la filosofia di evitare a tutti i costi lo spreco del magazzino, dato che scarpe e borse sono prodotte su ordinazione. E consentono la personalizzazione: dei materiali, ma per le borse si realizzano anche pezzi su misura.
La rivoluzione artigiana praticata da Daniela con la produzione prosegue nella comunicazione rivolta alla vendita: “il digital e i social mai come adesso hanno reso possibile un canale di vendita diretto agli artigiani, ma troppi evitano di stare davanti alla telecamera e pubblicano solo foto standard. Ma come si può pretendere che il consumatore decida di acquistare il nostro prodotto se non raccontiamo niente di distinguibile? Invece di pubblicare gli shooting bisogna pubblicare le ragioni che stanno dietro agli shooting: perché oggi la differenza la fa l’individuo, l’animo, il sentire umano!” Il digitale è la via, ed è lì che si trasferirà il negozio fisso, mentre quello fisico diventerà agile e itinerante nella formula del Pop Up Store, per creare l’incontro, lo scambio, la festa.
La rivoluzione artigiana auspicata da Daniela per tutto il sistema, sul modello de La Marchigiana, riformula anche la comunicazione rivolta alla formazione: “le mani callose degli artigiani che cuciono, io detesto questo storytelling trito, vecchio e inutile che non convince più nessuno, perché da docente universitaria mi rendo conto che le nuove leve, i giovani che dovrebbero sostituire le maestranze, non hanno minimamente idea di cosa significhi fare l’artigiano perché hanno ricevuto una percezione del settore manifatturiero calzaturiero che è svalutante. Il nuovo artigianato è diverso, ma non c’è una narrazione nuova per comunicare questo mestiere: bisogna inventarla innanzitutto per documentare un cambiamento, e per avvicinare i giovani con il loro linguaggio, fresco, veloce, che punta sul risultato del lavoro e non sul processo. Che sottolinea il successo: imprenditoriale e commerciale, raggiungibile. Il mio sogno è creare un istituto, una facoltà che crei l’artigiano del futuro: laureato ma non in moda bensì in saperi alternativi, ha vissuto fuori casa e sa essere indipendente, sa l’inglese, ha competenze proprie digitali, social, commerciali e fiscali per saper decidere prima di delegare e per dare un’impronta unica al suo prodotto. E che ha imparato il mestiere perché ha una buona manualità.”
C’è una percezione sbagliata dell’imprenditorialità nei settori manifatturieri italiani che portano più ricchezza al paese: la rivoluzione artigiana, con i suoi prodotti e visioni, ci offre un ottimo spunto per correggerla. Chapeau, Daniela!