Quello firmato da Jonathan Anderson non è mai solo un fashion show. 
E quest’esordio non è affatto un tentativo di depistaggio lessicale magrittiano, bensì è un invito accorato ad impugnare la consapevolezza necessaria per godere appieno della collezione maschile JW Anderson a/i 20-21, e della profondità lacerante, eppur testardamente positiva, della sua messa in scena parigina.
Dopotutto lui, Jonathan Anderson, nasce enfant prodige della moda, e cresce con coerenza brillante: confermando il suo valore ad ogni passo creativo, ad ogni sfilata puntuale nel destare stupore, ad ogni riflessione così pregna di realismo e generosità da divenire una rivelazione. Anderson è un visionario lucidissimo, che della moda preserva e innova pochi ideali, ma salvifici. Ovvero, i fondamentali. 
Crede infatti nella rieducazione al rispetto per l’eccellenza della manifattura e della sua filiera: come atto di onestà e di sostenibilità, perché poche cose belle e ben fatte ci motivano a trattenerle per gustarcele nel tempo, anziché arraffarne troppe per disfarcene subito in preda alla febbre consumistica. Crede anche nella conoscenza curiosa e costruttiva, assieme al progresso coscienzioso: quello che in slang fa poco “hype”, perché al rumore del marketing predilige l’azione concreta e sincera.

Ma, innanzitutto, Anderson crede nel grande potere della cultura: la moda riflette la società, diventa complice dell’arte, e come lei può assumere la missione di scuotere le coscienze mentre ne veste il corpo. È sì un linguaggio, ma è anche un grimaldello per scardinare le menti e avviare il cambiamento. 
Non solo ci crede ma lo dimostra in collezione, con quella che per l’a/i 2020-21 di JW Anderson è più di un’ispirazione: Jonathan Anderson porta infatti in scena la voce e l’opera di David Wojnarowicz, con un suo monologo degli anni ’70, e una serie di manichini con la faccia coperta dalla citazione della maschera tratta dalla serie “Arthur Rimbaud a New York” e indosso un maglione che riproduce l’immagine tratta da “Untitled (Burning House)”. 
Non è solo un omaggio, ma un atto di posizione e appello: giovane artista geniale e maledetto David Wojnarowicz,  come il suo Raimbaud, condannato alla tragedia dell’emarginazione omosessuale e alla pena di morte per aids nella New York di fine secolo scorso, lacerato dalla consapevolezza della violenza operata dalle convenzioni sociali cieche e sorde, consumato dalla voglia di ribellione che diventa militanza attiva, e arte che racconta il dramma con crudezza per schiaffeggiare l’ipocrisia politica e svegliare la società. C’è il dramma, ma anche la positività che Jonathan Anderson da tempo trova nel legame con la creatività di David Wojnarowicz mossa dalla politica: c’è anche tanta coerenza, che si esprime in una collezione sintetica, 35 look che riprendono i punti forti del suo passato recente e li riconfermano con piccoli giusti tocchi d’evoluzione per il futuro.

JW Anderson uomo a/i 2020-21: l’idéal della moda consapevole narra lo spleen dell’artista David Wojnarowic e supporta la lotta all’AIDS

Or dunque, la passerella è un susseguirsi di pochi modelli perfetti nelle loro declinazioni: s’inizia col cappotto sofisticato sopra in doppiopetto e il resto che scende ampio e sbieco come una corolla ribaltata, che si semplifica e si ammorbidisce fino a risultare una calda cappa monastica, entrambi allacciati da una versione ingigantita della catena dorata che fa da leit motif anche sui dress snelli e lunghi in bianco o in paisley, motivo, quest’ultimo, che pervade anche la versione in duvet imbottito del cappotto in doppiopetto da cui è tratta anche anche la sciarpa che infiocchetta al caldo il collo dei giovani modelli.
A proposito di coerenza ed eccellenza, mentre le lane sono rigorosamente inglesi e artigianali, gli outfit fluiscono tra i gender, così la catena dorata decora le icone loafer ma anche le maglie che terminano con una balza rigonfia, oppure è sostituita da grandi perle che percorrono le spalle e le braccia, in un’alternanza scorrevole di eclettismo e minimalismo, fino al finale che richiude il cerchio di valore. Ovvero le due maglie che fino a quel momento erano indosso ai manichini in platea: i maglioni in feltro bianchi che riportano l’illustrazione della Burning House in nero e rosso, quella che era la denuncia artistica della New York di David Wojnarowicz, la sua casa metaforica distrutta dall’inferno dell’aids, sono andate immediatamente in vendita per supportare, in collaborazione con P·P·O·W e con Estate of David Wojnarowicz, la raccolta fondi a favore di VisualAIDS, l’organizzazione di arte contemporanea fondata nel 1988 a sostegno degli artisti positivi all’HIV. 
Vien spontaneo ora, appoggiare a degna conclusione e monito ottimista, anche un’altra citazione David Wojnarowicz, tratta dal libro, Close to the Knives: A Memoir of Disintegration: “If silence equals death, he taught us, then art equals language equals life.” (se il silenzio equivale alla morte, lui ci ha insegnato, allora l’arte equivale al linguaggio e così alla vita).