Nella biografia di Giuseppe Buccinnà si legge della sua attrazione per la musica e la pittura, per culture lontane e per la psicologia, le ispirazioni che possono venire anche da mondi lontani dalla moda e non stupisce sapere che il designer poco più che trentenne ha una laurea in Ingegneria, conseguita al Politecnico di Milano, e poi un diploma in pattern-making ottenuta all’Istituto Secoli. E questo approccio culturalmente eclettico e stimolante si esprime nelle sue collezioni nello studio preciso di forme e volumi, accanto ad una chiara attenzione ai dettagli e alla vestibilità dei suoi capi. Una produzione interamente italiana quella dello stilista, con proposte all’insegna della qualità, ma anche di un preciso rispetto per l’ambiente. Ho incontrato e chiacchierato con il designer per conoscere meglio questo suo percorso nella moda che in poche stagioni lo ha reso una delle figure più interessanti del nuovo panorama made in Italy

Come ti sei avvicinato alla moda e quando hai deciso che sarebbe stato il tuo futuro?
Durante i miei studi ingegneristici ho cominciato a sviluppare l’idea di muovermi verso un linguaggio più immediato; il carattere maniacale e totalizzante dell’arte ha fatto il resto.
La formazione scientifica mi aiuta a cogliere l’entropia che mi circonda; le parole inducono il pensare e, tanto più ampio è il vocabolario, tanto più lo sarà il concetto.

Ci racconti la collezione? A quale donna si rivolge?
Le mie collezioni nascono dalla volontà di modulare un linguaggio essenziale, necessariamente contemporaneo; il mio è in primis un esercizio di segno che vuole diventare riconoscibilità. M’interessa scandagliare angoli e luoghi della nostra cultura stabilendo dialoghi continui con quel che mi circonda; un vivere per fare come sintesi tra ragione e sentimento.

Da quali input ispirativi prende forma la tua creatività? Quali amori hai oltre la moda?
L’aspetto più complicato è quello di creare rimanendo aderenti alla propria identità e, trattandosi di un dono sociale, diventa necessario un continuo rapporto di contaminazione.
Un gesto, una forma, reiterati nel tempo diventano il senso di una vita e, più in generale, sono attratto dalle infinite possibilità del pensiero. 
Per citare alcuni nomi direi Tarkovskij, Carmelo Bene, Gilles Deleuze e Gina Pane; ognuno nel proprio campo e ognuno con la propria estetica.

Cosa faresti se non lavorassi nella moda?
Probabilmente qualcosa di diametralmente opposto, distante. Tuttavia, mi vedo completamente ancorato a quel che faccio. Vivo con abnegazione ogni gesto, ogni dubbio e ogni ossessione votata all’oggi, al contemporaneo.

Il must-have della tua collezione, quel capo che ti distingue?
Non ho un ricordo di un capo specifico, ma ogni collezione rappresenta per me un nuovo inizio, un’opportunità per aggiungere un tassello ad un mosaico. Ragiono d’insieme e mai in modo univoco sul capo, proprio perché m’interessa il tutto e non il singolo.

I tuoi fashion heroes? Chi hai amato e ami nel fashion system?
Mi piacciono gli autori, o quantomeno quelli che reputo tali e che, a prescindere dalla generazione, riescono a trasmettere valori in senso assoluto.
Guardo ai maestri giapponesi per quel che concerne il metodo, il rigore e la disciplina e ai minimalisti per la capacità di sintesi e l’austerità. Molto spesso le due visioni si fondono con interpretazioni autorali che ammiro profondamente.

Il tuo ideale di bellezza? Cosa è bello per te e cosa invece è l’eleganza?
La bellezza è un’attitudine, è figlia dell’occhio che osserva in modo soggettivo.
Non ho uno stereotipo preciso perché non penso ne esista uno, tuttavia sono costantemente affascinato dalla “bellezza inutile”, senza fine.
In sintesi e per dirla con Lacan, “la bellezza è un velo apollineo che deve far presentire il caos dionisiaco che pulsa in essa”.
Vedo invece l’eleganza come concetto attinente ad un insieme di regole schematiche e facilmente decodificabili.

Un giovane designer capace di imporsi con collezioni interamente sviluppate in Italia: Giuseppe Buccinnà intervistato da Stefano Guerrini

Il tuo motto personale, la frase che ti ripeti più spesso?
Quando la consolazione non c’è, resta l’arte.

Un consiglio per quelli che iniziano ora, gli studenti di moda e i fashion addicted?
Sto alla larga da consigli perché credo maggiormente nella testimonianza.
La mia vuole essere un sunto di abnegazione e desiderio.
Quest’ultimo, penso sia un elemento rivoluzionario alla base di qualsiasi approccio della nostra vita a prescindere dal contesto in cui si operi.

Cosa ti ha insegnato questo momento così difficile?
Le sabbie mobili di questi tempi mi hanno concesso di andare ancora più a fondo nei miei pensieri, affrontando la vulnerabilità vissuta e cercando di scavare verso l’essenza del mio progetto; un posto vicino ai miei limiti.
Tutto questo ha però rappresentato un’opportunità enorme per rovesciare l’ombra e ritrovare uno spazio di necessità nel mio lavoro come viatico per ritrovarlo nella mia vita.

Progetti e sogni per il futuro?
Puntualmente ci muoviamo in molteplici direzioni ed inevitabilmente ci ritroviamo fermi con noi stessi; per questo motivo ho iniziato a lavorare sulla nuova collezione cercando di ancorarla, per quanto possibile, alla transizione in atto. Oggi la moda non solo può, ma deve guardare all’arte; deve farlo come interscambio necessario alla lettura, comprensione e scrittura del contemporaneo. Per quanto complesso, sto riflettendo molto anche sull’aspetto comunicativo, mi pongo molte domande nel tentativo di trovare risposte plausibili. Questo significa intercettare la traiettoria della storia.