Partiamo da un punto di vista molto privato e personale: io adoro Clara Tosi Pamphili. L’ho conosciuta anni fa, durante la presentazione di uno dei suoi molti progetti legati alla moda, l’ho studiata un po’ da lontano, pian piano mi ha affascinato e colpito, perché per me Clara è la moda, vorrei dire italiana, ma preferisco pensare ad un quadro più generale, nel suo aspetto meno fenotipico e superficiale, fatto di trend passeggeri e di “consigli per gli acquisti”, e più culturale, sociologico e passionale. Clara, con Alessio de Navasques, da anni porta avanti il progetto A.I. Artisanal Intelligence, che si svolge durante AltaRoma, spesso una delle proposte più interessanti delle giornate della moda romana, capace di coinvolgere anche quando esce da quel momento, come quando è stato ospite del White a Milano. Ammetto che non ho capito subito l’importanza di A.I., l’ho pensato da sempre come prospettiva di riflessione sull’estetica, ma solo in un secondo momento ho capito che si portava dietro aspetti anche più rilevanti, la promozione di giovani realtà italiane, quella di aspetti meno conosciuti del mondo dello stile, in generale la voglia di mappare un nostri know-how legato al saper fare moda, che non fosse solo semplice momento di orgoglio locale o nazionale, che andasse oltre al “guardate come siamo bravi a Roma o come siamo bravi in Italia”, ma diventasse un documento di insegnamento, di esempio, di cultura, appunto. Ho ritrovato lo stesso impegno di Clara in Videocittà, altra idea fortissima, in cui la sottolineatura era sull’importanza delle sinergie che il cinema italiano, anche qui scelgo di non dire solo romano, ha con altri mondi creativi e la sua importanza nel formare menti, professioni, ed ho avuto il piacere di condividere con Stefano Mastropaolo una MasterClass sulle Dive nel cinema, e del passaggio dalla figura della Diva a quella di ‘icona no gender’ negli anni più recenti. Mi sono divertito molto nel ritrovarmi in questa idea e ho scoperto ancora di più Clara, con la sua incredibile energia contagiosa, l’entusiasmo, ma anche una vena quasi malinconica, che nasce da un animo ribelle che vorrebbe cambiare uno status quo noioso e stantio. Quello di certi snobismi legati alla moda, di certi preconcetti, che proviamo a scardinare anche in questa nostra chiacchierata fiume nata per parlare del suo lavoro, ma che arriva ben più lontano. Chiacchierata per me importantissima e che vi invito a leggere. Eccovi il mio incontro con Clara Tosi Pamphili.

Facciamo il punto su A.I. Artisanal Intelligence. Se dovessi dire qualche grazie a chi lo rivolgeresti?

Ad un grande gallerista scomparso, Pino Casagrande, che ha creduto in A.I. all’inizio. Aver potuto realizzare la prima edizione, oramai dieci anni fa al Pastificio Cerere negli studi di artisti storici, ha garantito l’inizio del successo che è arrivato sempre. Se non ci fosse stato lui come primo interlocutore forse sarebbe stato diverso. Alla stampa che ha capito un progetto difficile, che ha saputo raccontarlo. A chi ha partecipato con quell’entusiasmo da esordiente o con la saggezza dell’esperienza. A tutti i collaboratori che hanno scaricato camion, montato tende da campo, cacciato piccioni…a loro soprattutto.


Un sassolino da toglierti? Una tiratina d’orecchi a chi la vogliamo dare?

Poche tirate d’orecchio, poche perché so che il periodo che stiamo vivendo non è facile per promuovere nuove avventure. Sicuramente qualcuno avrebbe dovuto crederci di più e capire che A.I. rappresenta l’identità della moda a Roma, fatta di mille contaminazioni, soprattutto con il Cinema.


Il momento più emozionante legato a questa esperienza?

Non c’è un momento solo sinceramente, penso a più cose. Le dichiarazioni di stima di personaggi come Suzy Menkes e Franca Sozzani, le visite e i complimenti di figure come Romeo Gigli o Milena Canonero, ma soprattutto vedere volare in alto ragazzi che avevano iniziato con noi. 
L’artista o il designer che meglio ha rappresentato il percorso o l’idea di A.I.?
Sono tanti, ma penso a Melampo, alla storia di successo legata alla tradizione di famiglia di camiciai per gli altri e che, queste due ragazze, hanno trasformato in un prodotto contemporaneo con la loro firma. I cappelli di Altalen, le borse di Benedetta Bruzziches…


Il tema più riuscito e quello meno capito e perché?
Il più riuscito nel suo sviluppo, sia di trama sia di personaggi, credo sia quello del Grand Tour del luglio 2016. Ispirato da una ricorrenza, quella della stampa del famoso libro di Goethe, e dall’idea del viaggio in Italia come completamento culturale, A.I. diventa un grande diario fatto di incontri proprio come in un viaggio. L’allestimento giocava sulle ombre e sul concetto del ricordo romantico di una immagine, con proiezioni e abiti e accessori caratterizzati da questo stile onirico e irrazionale, ma anche scientifico come era tipico di Goethe. La selezione contemplava l’ultimo realizzatore di Micromosaico di Roma (che stava per chiudere e con A.I. ha avuto un rilancio tale che lo vede ancora lì a via dei Banchi Vecchi) insieme ai costumi di Ingrid Bergman di Fernanda Gattinoni per il film “Viaggio in Italia” di Roberto Rossellini, una installazione site-specific di Ophelia Finke, considerata la più giovane e talentuosa artista inglese del momento. Queste figure facevano da colonne portanti ai giovani talenti, supportati da elementi di ricerca che, nel nostro caso, non si limitano ai giovani creativi, ma individuano sempre figure storiche che possano “garantire” per loro.
Forse quello meno capito è stato quello dell’anno successivo, cioè luglio 2017, “Prove Tecniche di Trasmissione”, che è piaciuto, ma non è stato capito. Il discorso del colore come fenomeno di cambiamento nelle immagini che vedevamo sugli schermi è stato affrontato con una curatela molto seria, forse troppo. Le opere di Isabelle Ducrot, i due passaggi teatrali che accoglievano i giovani creativi nello spazio del backstage ideale, considerandoli ancora in attesa di andare in scena, i costumi della Sartoria Farani in bianco e nero e a colori, realmente quelli dell’ultima e della prima trasmissione senza e con i colori: forse era un pò troppo, una volta una giornalista mi ha detto che pretendevamo troppo da loro, che loro dovevano parlare delle sfilate…

In generale come è cambiato il progetto nel tempo e come sei cambiata tu con esso?

Il progetto si é evoluto grazie all’evoluzione mia e di Alessio de Navasques che lo firma con me. Ma anche viceversa come dici tu, é uno scambio continuo. Non esistono situazioni simili: due edizioni all’anno, designer sempre diversi, ricerca continua e quindi cambiamenti e crescita continua. A.I. ci ha insegnato tantissime cose, ogni volta che lo racconto mi stupisco di quanti artisti, quante gallerie, quanti designer, quanti luoghi abbiamo coinvolto.
Io sono cambiata grazie all’esperienza e, soprattutto, all’analisi delle cose che non funzionano prima di quelle che funzionano. Non perché credo che vada assecondato il gusto delle persone ma perché, al contrario, è insito un aspetto esperienziale e formativo nel progetto.
 Parlo di un nuova visione anche per la formazione, dello scambio che deve avvenire in qualsiasi situazione, soprattutto in quella culturale. Credo nel Museo che si completa con la presenza del pubblico e che, per questo, é sempre diverso. 
In questo senso A.I. sta naturalmente prendendo una natura formativa, l’ultima edizione é stata concepita come un vero e proprio laboratorio. È un po’ come dire che quello che abbiamo capito ora lo dobbiamo insegnare agli altri. L’importanza dell’intelligenza artigianale rispetto a quella artificiale sta diventando un problema di salvezza della razza umana, il recupero del rapporto con noi stessi, ma anche con altri individui, si esprime naturalmente con la pratica del “fare”. Stiamo ragionando molto su questo.

L’importanza di questo progetto?

Oggi sta soprattutto nel nome. Ogni volta che vedo scritto A.I., e ora capita spessissimo, so che é l’altro A.I. é Artificial Intelligence quello dilagante e pericoloso, come Spielberg espresse meravigliosamente nel film omonimo. Quello per cui oggi il 75% delle nostre azioni si svolgono davanti a uno schermo, quello per cui si stanno perdendo rapporti e relazioni umane. Noi siamo l’A.I. buono, quello dell’intelligenza artigianale che ci salverà dall’eccesso di sudditanza tecnologica. Spero.
 Non abbiamo mai pensato all’artigianato manuale senza l’origine progettuale, abbiamo sempre parlato di intelligenza artigianale perché implica un processo di ricerca e sperimentazione, un passaggio dalla contemporaneità che fa evolvere la tradizione. 
Comunque è sicuramente importante anche per il lavoro sui designer artisti e artigiani: per il lancio dei nuovi e di rilancio degli storici.


E l’importanza invece di Videocittà quale è stata?

Nell’ambito di Videocittà ho curato personalmente il comparto moda e posso dire che sono fiera di aver coinvolto tre maison importanti come Gucci, Fendi e Bulgari nella realizzazione di progetti culturali che evidenziassero il legame fra moda, cinema e arte. La loro partecipazione è stata un segno di fiducia importante per la città ma anche tutto il resto della manifestazione ha visto la presenza di figure di alto livello con talk, convegni, proiezioni per 114 eventi in 10 giorni, ma ti ricordi tu sei stato uno dei protagonisti!
Ha dimostrato la forza di Roma come luogo di vitalità spettacolare, ha evidenziato la natura unica di un luogo dove sembra sempre di stare in un film, dove la città é talmente incredibile da rappresentare una scenografia continua e la gente, che sia protagonista o comparsa, ma è libera di essere chi vuole. Una iniziativa unica, anche per il fatto che tutto fosse aperto al pubblico, questo per me è sempre stato fondamentale anche in A.I.!

Come sta proseguendo il progetto? Ci saranno altre edizioni?

Stiamo preparando la prossima edizione con l’idea che sia tutto meno concentrato, più diluito nel tempo e quindi più accessibile per il pubblico, ma sempre con la stessa modalità dello scorso ottobre. 


Un momento emozionante dell’edizione tenutasi ad ottobre 2018?
L’arrivo della statua del Togato Barberini la mattina all’alba al Senato Romano. Portata da una gru, stava in alto tra il cielo delle prime ore del mattino e lo skyline del Foro Romano, una cassa blu. Una scena felliniana, con le voci romane dei trasportatori. Aprire la scatola e vedere il Togato Barberini, la statua di marmo con in mano le teste dei senatori, vicino ai manichini umani di Gucci con le loro teste in mano.
Una emozione coraleè stata anche quella del VideoMapping per Fendi a Palazzo della Civiltà, Laszlo Bordos non aveva mai lavorato in Italia, é stato un capolavoro.


Roma e la creatività. Cosa ti piace e cosa no, se pensi a Roma come città creativa?

Il problema di Roma è che la creatività é talmente parte del suo dna che non l’ha mai messa a sistema, come fai a non essere creativo dopo che hai attraversato Ponte Sant’Angelo? Se ci pensi è come avere libero accesso al Salone delle Feste dell’Olimpo, in questa città vivono gli dei insieme al Papa. Ogni volta che la paragono all’efficienza di altri luoghi, ogni volta che mi dispero perché tante cose non funzionano, poi me ne pento subito. A.I. non sarebbe mai nata in un’altra città. 


Chi sta cambiando Roma da un punto di vista creativo? C’è del nuovo in questa capitale?

Mi trovo coinvolta in prima persona in questo cambiamento, sono da poco stata nominata Vicepresidente di Palaexpo, di cui fanno parte il Palazzo delle Esposizioni, il Macro, il Mattatoio/Pelanda. Si potrebbe dire che noi la stiamo cambiando, come lo sta facendo Cristiana Collu alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Sta cambiando perché si può ragionare su nuove espressioni artistiche, dinamiche, che contemplano trasversalità. Produzioni di mostre che assecondano la filosofia di coinvolgimento del pubblico, di formazione nel senso più dinamico e scientifico. C’è tanto di nuovo.


E se spostiamo questa domanda sulla Nazione? Come è cambiata la creatività di moda in Italia?
Ci sono successi oggettivi e inconfutabili di nostri geni come Pier Paolo Piccioli e Alessandro Michele. La creatività italiana ha ristabilito un primato elaborando la tradizione della Couture e del rapporto con il costume, una caratteristica romana più che nazionale. 
In generale però trovo tutto abbastanza ripetitivo e noioso, nessun cambiamento che lasci un segno da dove muoversi. Contaminazioni sempre più frequenti fra arte, moda, cinema, ma l’invenzione vera e propria è lontana dal manierismo attuale. L’unico caso che potrei definire geniale è il lavoro di Moncler, con un materiale difficile come può essere un piumino ha elaborato una nuova filosofia.

Un’intervista ad una figura importante per la moda italiana, curatrice di A.I. Artisanal Intelligence, docente e molto di più: Clara Tosi Pamphili.

Quali le tue speranze ed aspettative?

Che ritorni l’entusiasmo per la conoscenza, per l’approfondimento, la voglia di capire e di non essere così passivi come siamo ora. Una Rivoluzione di pensiero, qualcuno che faccia diventare di moda sapere le cose e non il contrario. 


Docente da molti anni, quindi hai una visione precisa di come sono gli studenti, ora i  millennials (termine orribile, ma per capirci). Come sono cambiate le generazioni nuove rispetto a quelle che le hanno precedute? Sono questi ragazzi più disillusi? Hanno più sogni? Come li vedi?

Sono meravigliosi, sono vittime di quello che abbiamo creato per loro, Spesso gli dico che dovrebbero denunciarci, andare da un bravo avvocato, sai quelli dei film americani che inchiodano le case farmaceutiche? Ecco da uno così e denunciare tutti quelli che hanno fra 40 e 60 anni. 
Non sanno più nulla queste nuove generazioni, gli abbiamo cancellato tutti i file. Un lavoro subdolo come la strage di una razza, riuscito alla perfezione. Si salvano quando si confrontano con gli altri, per fortuna i miei studenti sono di molte nazionalità e io faccio sempre in modo di “mischiarli”. I loro sogni son dark fantasy, sono i figli di “Twilight”, pensano che con i vampiri ti puoi fidanzare, non hanno anticorpi perché li abbiamo anestetizzati da ogni paura.
Mi sento molto in colpa, ma posso dire che basta un minimo di attenzione in più, di tempo dedicato realmente a loro, per riaccenderli.


Cosa è il bello per Clara?

È un circuito elettrico nuovo che si accende, è il coraggio di attaccare pezzi che sembravano diversi, è “Frankestein”, la mia opera preferita di Mary Shelley. Forse potrei dire: è quello che spesso per gli altri è impossibile o inaccettabile.


Cosa invece l’eleganza?

Quel mix tra sobrietà e ironia, anzi autoironia, a rischio di essere banale è Coco Chanel con i pantaloni da uomo e le perle, la sigaretta che pende dalle labbra, lo sguardo intelligente e anarchico. C’è anche una piccola dose indispensabile di malinconia, sinceramente non amo i colori solari e la sfrontatezza dell’allegria.


Da dove arrivano le ispirazioni per il tuo lavoro?
Soprattutto dal cinema, la grande vera passione, cinema, ma anche Netflix, serie su serie. Dormo poco, fagocito tutto quello che è visivo. Poi l’arte con un debole per la fotografia. Sono abbastanza brava a rubare ovunque, anche in un carrello della spesa di chi sta in fila prima di me alla cassa spesso trovo indizi e ispirazioni. Diventano disegni, appunti, fogli che stanno ovunque e che spesso nemmeno rileggo, ma so che ci sono.


Le tue fashion heroes?

Una su tutte Madeleine Vionnet, perché comunque i miei studi di architettura mi lasciarono a bocca aperta davanti al suo Deux Mouchoir, all’invenzione del taglio a sbieco quella scienza involontaria tipica dell’artista artigiana.
 Oggi, se è giusto dire oggi, per lo stesso motivo Issey Miyake con il suo Piece of Cloth e il suo essere punto di congiunzione fra Oriente e Occidente.


Un sogno, un progetto, un’idea per il tuo futuro?
La mia scuola.